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L'ARGOMENTO DI OGGI

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dai GIORNALI di

oggi

GUERRE, DITTATORI,

E

FAME DEI POVERI

DEL MONDO

 

2009 dal 5 al 12 Aprile

8a SETTIMANA MONDIALE della Diffusione in Rete Internet nel MONDO de

" i Quattro VANGELI " della CHIESA CATTOLICA , Matteo, Marco, Luca, Giovanni, testi a lettura affiancata scarica i file cliccando sopra

Italiano-Latino Italiano-Inglese

 

 

Più sotto trovate le recensione dai Giornali ed il Ns. Commento.

Nell'Antica Grecia con l'inizio dei Giochi Olimpici si dichiarava una tregua rispettata da tutte le Città e Stati in guerra.

Facciamo che anche da noi, civiltà del terzo millennio, si pratichi questa usanza:

- Utilizziamo le Olimpiadi perché siano strumento di competizione leale, per lo sviluppo di relazioni di Pace.

Siti Internet interessanti da visitare:

http://www.villaggiomondiale.it/guerrenelmondo.htm

 

DAL SITO INTERNET DI VILLAGGIO GLOBALE

http://www.villaggiomondiale.it/guerrenelmondo.htm

 

AREE DI CRISI E GUERRE IN CORSO NEL MONDO

Le guerre del silenzio >>>

Continente o Paesi aree di crisi e di conflitti in corso:

Africa

Americhe

Asia

Europa

Medio Oriente

Algeria

Burundi

Congo

Costa d'Avorio

Eritrea

Etiopia

Liberia

Nigeria

R Centrafricana

Ruanda

Somalia

Sudan

Uganda

Colombia

Messico

Perù

Afghanistan Cecenia

Filippine

Kashmir

Nepal

Ossezia

Tibet

Macedonia

Nord Irlanda Paesi Baschi

Iraq

Kurdistan

Territori

Il mondo è in guerra.

Mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, lo è stato come oggi.

In Israele e Palestina la spirale di attentati e ritorsioni prosegue senza fine. In Iraq la resistenza islamica sta facendo rivivere agli statunitensi un nuovo Vietnam. In Afghanistan, i Taliban si sono riorganizzati e stanno conducendo una guerriglia sempre più minacciosa, mentre i signori della guerra locali continuano a combattersi fra loro.

In tutti i Paesi arabi, dal Marocco all’Arabia Saudita, dall’Algeria allo Yemen, ora anche in Turchia, gli integralisti islamici combattono contro governi ritenuti troppo moderati e filo-occidentali, usando l'arma che hanno a disposizione: il terrore.

Del terrorismo islamico e della 'guerra globale', veniamo informati tutti i giorni, anche se spesso in modo propagandistico e parziale.

Ma nessuno parla delle altre decine di conflitti che si combattono nelle periferie più povere del villaggio globale, là dove gli obiettivi dell’informazione globalizzata non vanno a guardare.

In Cecenia, in Indonesia, nelle Filippine, in Nepal, in India, in Kashmir, nello Sri Lanka, in Uganda, in Burundi, in Sudan, in Somalia, in Costa d’Avorio, in Congo, oggi si combattono guerre che durano da anni e che hanno provocato centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, mutilati, orfani e vedove.

 

DITTATORI E VITTIME

Africa

Americhe

Asia

Europa

Medio Oriente

> Boumediene (Algeria)

> Habre (Ciad)

> Kabila (Congo)

> Boigny (Costa d'avorio)

> Mubarak (Egitto)

> Selassie (Etiopia)

> Menghistu (Etiopia)

> Omar Bongo (Gabon)

> Sekou Toure' (Guinea)

> Taylor (Liberia)

> Gheddafi (Libia)

> Ratsiraka (Madag.)

> Banda (Malawi)

> Traore' (Mali)

> Hassan II (Marocco)

> Bokassa (R. Centr.)

> Siad Barre (Somalia)

> Giara Nimeiry (Sudan)

> Omar al Bashir (Sudan)

> Eyadema (Togo)

> Amin Dada (Uganda)

> Kaunda (Zambia)

> Mobutu (Zaire)

> Mugabe (Zimbabwe)

> Peron (Argentina)

> Videla J. (Argentina)

> Viola (Argentina)

> Galtieri (Argentina)

> Bignone (Argentina)

> Banzer (Bolivia)

> Videla (Cile)

> Pinochet (Cile)

> Fidel Castro (Cuba)

> Duvalier (Haiti)

> Somoza (Nicaragua)

> Stoessner (Paraguay)

> Fujimori (Perù)

> Trujillio (R. Dominic.)

> Gomez (Venezuela)

> Chavez (Venezuela)

 

> Hoxha (Albania)

> Lukashenko (Bielor.)

> Zivkov (Bulgaria)

> Husak (Cecoslov. )

> Pavelic (Croazia )

> Hitler (Germania)

> Ulbricht (Germania)

> Honecker (Germania)

> Papadopulos (Grecia)

> Mussolini (Italia)

> Tito (Yugoslavia)

> Jaruzelski (Polonia)

> Salazar (Portogallo)

> G. Dej (Romania)

> Ceausescu (Romania)

> Lenin (Russia)

> Stalin (Russia)

> Breznev (Russia)

> Milosevic (Serbia)

> Franco (Spagna)

> Ataturk (Turchia)

> Janos Kadar (Ungheria)

 

 

Africa

Americhe

Asia

Europa

Medio Oriente

         

LE CIFRE DELLA FAME IN AFRICA (marzo 2003)

"In tutto il continente rischiano la morte per fame 38 milioni di persone"

(World Food Program, www.wfp.org).

Africa Orientale e corno d'Africa. Eritrea

In Eritrea la mancanza di cibo potrebbe essere la peggiore da quando è divenuta uno Stato indipendente, nel 1993. L'emergenza riguarda almeno 1,5 milioni di persone, su una popolazione totale di 3,3 milioni. In particolare, la siccità rende critiche le condizioni delle regioni a Nord e Sud del Mar Rosso e dell'Anseba. Con un raccolto di cereali di 74.000 tonnellate (quattro volte meno di quanto era riuscita in genere a produrre nell'ultimo decennio) l'Eritrea dispone solo del 15% delle risorse alimentari necessarie. Alla comunità internazionale richiede 350,000 tonnellate di cereali per assistere le 900.000 persone più direttamente colpite dall'emergenza.

Va sottolineato che la guerra con l'Etiopia ha reso inutilizzabili in Eritrea 12.000 ettari di terreno prima coltivabile, ha costretto a fuggire oltre un milione di persone delle regioni produttrici di grano Gash Barka e Debub (disseminate oggi di mine inesplose) e vede oggi in condizioni di estrema indigenza le popolazioni eritree che ritornano dopo essersi rifugiate in Sudan.

Etiopia

Sono già stimati in 11,3 milioni le persone che hanno bisogno di aiuti alimentari nel paese colpito dalla recente guerra e dalla siccità; una stima che il WFP calcola potrebbe aumentare a 14,3, un quinto della popolazione totale. La crisi sta accelerando i fenomeni di inurbamento, con allevatori e contadini che si vedono costretti a camminare anche dieci chilometri per poter accedere all'acqua e sempre più numerosi decidono quindi di emigrare nei centri urbani. L'emergenza richiede un contributo esterno per almeno 1,44 milioni di tonnellate di cereali, alimenti vari e oli vegetali.

Sudan

Due decenni di conflitti armati hanno fatto salire a quasi 3 milioni di persone la popolazione che deve purtroppo ricorrere agli aiuti alimentari per poter sopravvivere. Inoltre la siccità si è ripetuta per tre anni consecutivi nelle regioni del Mar Rosso, Darfur e Kordofan

Somalia

La Somalia ha vissuto dieci anni di conflitti interni e di condizioni climatiche avverse, con periodi di siccità seguiti da inondazioni. Ne risulta oggi una capacità di produzione alimentare fortemente compromessa che va dalla mancanza di sementi al diffondersi di epidemie che decimano le colture, alla difficoltà di riattivare scambi inter-regionali. Si stimano in 750.000 le persone colpite dall'emergenza alimentare, 120.000 nella sola Mogadiscio, la capitale, 514.000 nella regione centro-meridionale, 50.000 nella regione nord-orientale e 67.000 nella regione nord-occidentale. L'area di Bakool al sud è quella più gravemente colpita, con metà della popolazione minacciata dalla malnutrizione.

Uganda

Il WFP stima in centinaia di migliaia (forse un milione) le persone colpite dalla crisi alimentare in Uganda soprattutto a causa dei combattimenti che imperversano nel nord del paese e colpiscono anche i campi dei rifugiati. I combattimenti di agosto hanno significato la distruzione o l'abbandono di molti raccolti e l'impossibilità di seminare a settembre. Particolarmente colpite sono le regioni di Adjumani, Gulu, Kitgum e Pader.

Africa Occidentale

791.000 persone nella regione soffrono l'emergenza alimentare, per la maggior parte rifugiati a causa dei conflitti che investono Guinea, Liberia, Sierra Leone e, dopo l'ammutinamento militare del 19 settembre, anche la Costa d'Avorio. Si stima che solo da quest'ultimo paese 120.000 siano scappate alla volta di Burkina Faso, Ghana, Guinea Conakry e Liberia.

Sahel Occidentale

In cinque paesi, mezzo milione di persone sta lottando con la siccità. Si tratta di ampie regioni di Mauritania, Senegal, Gambia, Capo Verde e Mali. Mauritania e Gambia hanno dichiarato lo scorso anno lo stato di disastro e fatto appello agli aiuti internazionali. In Mauritania dove si stima che 420.000 (su una popolazione di 2,7 milioni) siano colpite dall'emergenza alimentare. Ciò significa anche una sensibile diminuzione dei capi di bestiame, uccisi a decine di migliaia per far fronte alla crisi. Anche il governo di Capo Verde, per la prima volta in vent'anni, dopo un raccolto inferiore di un quarto a quello degli anni precedenti, ha fatto appello alla comunità internazionale per far fronte alle esigenze alimentari.

Repubblica democratica del Congo (RDC)

L'emergenza alimentare riguarda quasi un milione e mezzo di persone, con 342.000 persone in condizioni critiche. È una delle eredità delle recenti guerre civili e con i paesi limitrofi, senza che gli accordi siglati con Ruanda e Uganda, e quelli in corso fra le fazioni all'interno del paese (che dovrebbero facilitare la consegna delle armi alla missione ONU MONUC) abbiano ancora generato un efficace cambio di clima.

Africa Australe. Angola

Per la prima volta, dopo tre decenni di guerra civile, ci sono più cittadini dell'Angola che ritornano di quanti lascino il paese. È l'effetto dell'accordo di pace firmato un anno fa. L'attuale situazione comporta, però, gravi rischi di malnutrizione e morte per fame per quasi due milioni di persone. In alcuni casi le associazioni umanitarie hanno potuto finalmente raggiungere gruppi che si erano dovuti nascondere nel territorio per evitare gli aspri conflitti, in particolare degli ultimi quattro anni.

Lesotho

Il Lesotho è stato colpito soprattutto da un eccesso di acqua, con nubifragi e tornado che hanno compromesso i raccolti di cereali, 60% in meno degli anni precedenti. L'emergenza riguarda 650,000 persone. Fu decretato lo stato di carestia nelle aree di Qacha's Nek, Quthing e Mohale's Hoek.

Malawi

Sono 3,3 milioni le persone compite quest'anno dall'emergenza alimentare. Anche se il paese ha cercato di far fronte al deficit di cereali con una maggiore produzione di tuberi e radici, il WFP calcola almeno 277.000 tonnellate di cereali e 208.000 tonnellate di alimenti generici per arginare la crisi. P.e., il prezzo del mais è aumentato del 500%. In questo quadro precario si inserisce il dilagare dell'infezione HIV/AIDS che colpisce oggi il 19,5% della popolazione.

Mozambico

Nei mesi scorsi un terzo delle regioni del paese ha prodotto meno cibo rispetto alle medie annuali e quelle centro-meridionali del paese vedono 590.000 persone in condizioni di emergenza alimentare. Il paese è stato vittima di una combinazione di periodi di siccità seguiti da inondazioni devastanti.

Swaziland

Condizioni climatiche particolarmente incerte e siccità nella stagione della fioritura hanno severamente ridotto i raccolti nelle aree di Middleveld, Lowveld e nell'altopiano Lubombo. In un paese che registra un livello di disoccupazione del 40% e di infezioni da HIV/AIDS del 25% della popolazione, almeno 270.000 persone si trovano in emergenza alimentare.

Zambia

È stimato dal WFP in 174.383 tonnellate il fabbisogno di alimenti necessario a far fronte alla crisi acuta che interessa 2,9 milioni di persone in Zambia, dove la siccità ha colpito la cintura di coltura tradizionale del mais, le condizioni impongono oggi ai contadini viaggi spesso di dieci chilometri a piedi per potersi recare ai mercati che distribuiscono generi alimentari, mentre diminuisce chi lavora nei campi anche a causa del virus HIV/AIDS che ha già colpito un quinto della popolazione.

Zimbabwe

Lo Zimbabwe era considerato un paese esportatore di prodotti alimentari, ma è stato colpito nell'ultimo decennio da precipitazioni saltuarie e inondazioni, un aumento del conflitto sociale (CEM ne ha parlato nel numero di Global Express dell'Aprile 2002, dedicato alle elezioni in Z.) abbinato ad un generale deterioramento delle condizioni economiche e ad un drastico aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Oggi affronta la peggiore siccità degli ultimi vent'anni con un deficit di cereali stimato in 1,5 milioni di tonnellate e 6,7 milioni di persone colpite dall'emergenza alimentare, sia in ambito urbano, sia rurale.

Accanto a questi casi acuti, altre aree di crisi interessano Burundi, Kenya, Madagascar e Tanzania.

 

 

I BAMBINI, PRINCIPALI VITTIME DELLA FAME IN ASIA

Secondo il Social Monitor 2003 dell’UNICEF, il tasso di mortalità infantile nel Caucaso e nell’Asia Centrale è cinque volte superiore rispetto al resto dell’Europa Centrale e Orientale e della Comunità degli Stati Indipendenti¹¹ e dodici volte superiore ai paesi Occidentali Industrializzati.

" La nostra ricerca dimostra che la mortalità infantile in questi Paesi è un problema molto più grande di quanto suggeriscano i dati ufficiali," afferma Carol Bellamy, Direttore generale dell’UNICEF. "Abbiamo guardato aldilà delle statistiche ufficiali e abbiamo parlato con le madri nelle loro case. I loro racconti ci rivelano che la sopravvivenza infantile è in grave crisi".

Secondo il rapporto redatto dal Centro Ricerca Innocenti dell’UNICEF con sede a Firenze, la maggior parte di queste morti infantili possono essere prevenute. L’UNICEF afferma che responsabili della maggior parte di queste morti sono una combinazione di fattori come la povertà, il cattivo stato di salute e malnutrizione delle madri, e un’assistenza medica carente.

" Ci troviamo di fronte a due problemi distinti", ha detto Bellamy. "Abbiamo decine di migliaia di morti infantili che dovrebbero essere prevenute, e sistematicamente non riusciamo a contare in modo corretto il numero di vite perdute. Il fatto stesso di non riuscire a capire la portata di ciò che succede ci ostacola nell’attuare le misure atte a correggere la situazione; quindi, è fondamentale avere le cifre giuste. Si tratta di un primo passo cruciale per salvare giovani vite."

Il rapporto è incentrato sulla mortalità infantile negli otto paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale, oltre alla Romania e all’Ucraina. Confronta il tasso ufficiale di mortalità infantile in quei paesi e i dati che sono stati invece raccolti durante le interviste dirette con le donne. Secondo le indagini, negli otto Paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale, il tasso calcolato di mortalità infantile è molto superiore al tasso ufficiale. Nell’Azerbaigian, ad esempio, la stima risultante dall’indagine è quattro volte superiore – 74 morti infantili su 1.000 nati vivi- rispetto al tasso ufficiale di 17 su 1.000. Anche la Romania sembra soffrire di questa sottostima, benchè in misura minore.

" Questo genere di imprecisione e di statistiche fuorvianti possono contribuire a creare un clima di accettazione" afferma Bellamy. "Fanno sì che i governi e il personale sanitario siano inconsapevoli dei rischi di morte infantile e della necessità di intervenire e inoltre tengono all’oscuro sia genitori che i responsabili delle comunità".

CHE COSA E’ CHE NON VA

Nell’esaminare i motivi di questo divario, il Social Monitor ha individuato e sottolineato tre problemi: una mancata definizione di "nati vivi" secondo gli standard internazionali accettati, una informazione non attendibile sulle morti infantili a livello locale e ostacoli alla registrazione delle nascite.

Secondo il rapporto, una morte infantile può passare inosservata perché il neonato non è mai stato registrato come ufficialmente "vivo". Secondo la definizione stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Salute, un bambino è considerato vivo alla nascita se respira o mostra altri segni di vita, come il movimento di un muscolo o il battito cardiaco. Secondo una definizione risalente all’era sovietica, la respirazione viene considerata l’unico criterio di vita. Inoltre, i bambini nati prima della 28a settimana di gravidanza, di peso inferiore a 1.000 grammi e con meno di 35 centimetri di lunghezza, vengono considerati vivi solo dopo il settimo giorno di sopravvivenza.

Questa definizione sovietica è ancora prevalente in molti paesi della Comunità di Stati Indipendenti. Una corretta trasmissione dei dati finisce per abbassare ulteriormente i dati ufficiali. Il sistema comunista sottolineò la necessità di tenere bassa la mortalità infantile; gli ospedali e il personale sanitario rischiavano di essere penalizzati se riferivano un aumento nella mortalità infantile. Di conseguenza, a volte si registrava la morte dei bambini in cura come aborti spontanei o nati morti. A causa delle condizioni di deterioramento del servizio sanitario e della mancata riforma del sistema, tutto ciò si è rivelato un retaggio difficile da superare e in alcuni paesi l’informazione continua ad essere poco attendibile.

La difficoltà di quantificare la mortalità infantile è inoltre esacerbata dagli ostacoli posti alla registrazione delle nascite. Uno studio recente ha calcolato che ogni anno circa il 10% delle nascite nelle regioni più povere non vengono registrate – la maggior parte nel Caucaso e nell’Asia Centrale. I genitori incontrano ostacoli al momento della registrazione dovuti ai costi, alla difficoltà di recarsi all’anagrafe più vicina, alle lungaggini burocratiche ed alla mancanza di incentivi ad una tempestiva registrazione. Se la nascita di un bambino non viene registrata, è poco probabile che se ne registri la morte.

Perché si perdono tante vite?

Secondo gli standard globali, nuove indagini riportano un alto tasso di mortalità infantile nel Caucaso e nell’Asia Centrale, che varia da 36 per ogni 1.000 nati vivi in Armenia a 89 per 1.000 in Tagikistan. Molte di queste morti sono causate dalla povertà, dalla malnutrizione e dal cattivo stato di salute delle donne con conseguenti complicanze durante la gravidanza ed il parto. La povertà limita l’accesso all’assistenza sanitaria e a trattamenti farmacologici. Come ha detto una mamma nel Tagikistan ai ricercatori quando ha descritto la morte del figlio: "sono andata dal pediatra che ha prescritto le medicine ma non avevo i soldi per comprarle. Sono andata da un guaritore ma la condizione del bambino peggiorò. Morì al settimo giorno."

Un altro aspetto del problema riguarda la carente assistenza medica. I problemi indicati nel rapporto comprendono una mancata assistenza sanitaria preventiva nonché la mancata esecuzione di base alla nascita, anche quelli che non richiedono tecnologie particolari, come: pesare il bambino e valutarne il polso, le smorfie, l’aspetto e la respirazione (il test APGAR).

Il Social Monitor è prodotto dal Centro di Ricerca Innocenti dell’UNICEF con sede a Firenze

 

 

ANCHE L'EUROPA COLPITA DAL FLAGELLO DELLA FAME

Dei 9 milioni e mezzo di persone che soffrono di malnutrizione nei Paesi europei in transizione, sei su dieci vivono in quattro Paesi: Azerbaijian, Armenia, Georgia e Moldavia.

il dramma della fame e della povertà non riguarda solo i Paesi poveri: anche le nazioni ricche hanno al loro interno sacche di popolazione che soffrono per insufficienza alimentare e di stenti.

In sei anni, dal 1995 al 2001, nonostante la percentuale della popolazione minacciata dalla povertà in Europa sia leggermente diminuita, passando dal 17% al 15%, il numero delle persone a rischio restano sempre al disopra di 55 milioni.

Minori e giovani sono i più vulnerabili: un bambino su cinque è a rischio di povertà ed uno su dieci vive in una famiglia senza reddito. L'Italia, insieme alla Spagna, con il 19%, supera la media europea.

La causa di questa situazione, che accomuna all'Italia anche Spagna e Portogallo, è da ricercare, secondo la Commissione Europea, soprattutto nel precoce abbandono scolastico che non consente ai giovani di avere le qualifiche necessarie per fare fronte alla rapida trasformazione della società globale.

La crescita economica è uno dei più importanti fattori per lo sradicamento della povertà, ma non è l’unico. La sua efficacia dipende, infatti, da come i benefici della crescita vengono redistribuiti e i governi devono lavorare per creare una più equa distribuzione dei benefici.

La riduzione della povertà dipende anche dalle opportunità di lavoro create nelle aree più povere, ma ultimamente la crescita economica appare insufficiente per questa finalità.

La soluzione a questo stato di cose dipende, in primo luogo, dalla volontà dei governi di avviare politiche concrete eque volte ad affrontare questa problematica. Libertà dalla corruzione, trasparenza nelle pubbliche procedure e responsabilità a livello politico sono le cure più efficaci affinché possa essere assicurata una più giusta distribuzione della ricchezza soprattutto nei Paesi poveri: tutto questo può essere veramente d’aiuto per combattere la piaga della povertà.

A tutto ciò si devono unire gli sforzi della società civile, per creare anche tra le popolazioni più povere, una coscienza politica tale da rendere "tutti" responsabili del proprio destino.

 

 

 

L'America Centrale nelle fauci del gigante

di Mariela Pérez Valenzuela, giornalista del Granma (Cuba)

A differenza dell'opposizione di alcuni governi latino americani alle pretese statunitensi di appropriarsi delle economie nazionali mediante un'Area di Libero Commercio delle Americhe e nonostante le massicce proteste popolari, gli Stati Uniti sono riusciti ad imporre un Trattato di Libero Commercio - TLC - con vari paesi del Centro America.

Il TLC accrescerà la miseria e l'esclusione del Centro America. Tre nuovi incontri con negoziati "bollenti" sono avvenuti l'anno scorso e gli USA e quattro dei cinque paesi coinvolti nel TLC (Honduras, Guatemala, Nicaragua e El Salvador) hanno concluso le loro analisi sul nuovo meccanismo economico.

Costa Rica solamente si è ritirata momentaneamente all'ultima ora dalla tavola del dialogo, data l'impossibilità di giungere ad accordi sui negoziati, stando ai portavoce ufficiali. Le promesse dei governanti del Centro America, fatte alle loro popolazioni, cioè che con l'entrata in vigore del TLC migliorerà il panorama economico e sociale depresso dei loro territori, non sono riuscite a fermare migliaia di persone che reclamano senso comune, coscienti che è in gioco il futuro della regione e che con questo accordo si incrementerà la povertà, facendo sparire milioni di posti di lavoro.

Siamo obbligati a protestare davanti al culmine di un trattato commerciale che danneggerà la piccola e la media impresa, i nostri micro imprenditori e tutti i nazionali, ha affermato René Gutiérrez, membro della seconda nazione più povera dell'America Latina e dei Caraibi, il Nicaragua, con una popolazione di poco più di cinque milioni di abitanti, il cui 60% è concentrato nelle campagne. Centinaia di manifestanti si sono riuniti alla metà di dicembre davanti alla Casa Presidenziale per chiedere al presidente Enrique Bolaños di non consegnare il paese alle multinazionali.

L'esperienza di quello che significa un accordo commerciale con queste caratteristiche con gli Stati Uniti, i popoli della regione la conoscono bene... basta dare un'occhiata al Messico di oggi che da esportatore è divenuto un importatore di prodotti dopo la firma del Trattato di Libero Commercio con l'America del Nord - gli USA e il Canada.

Anche se nella maggioranza dei paesi del Centro America l'agricoltura è il settore più importante economicamente ed esistono le condizioni per produrre alimenti sufficienti, la fame colpisce circa 8 milioni di perone, soprattutto in Nicaragua, Honduras e Guatemala, dicono gli esperti.

Circa il 42% della popolazione di questi paesi dipende dall'agricoltura per la sua sussistenza ed esiste il timore che l'ingresso massiccio dei prodotti provenienti dagli Stati Uniti, liberi dal pagamento della dogana, rovineranno i coltivatori locali.

Le possibilità che il TLC distrugga queste realtà locali esiste, poichè nel documento finale si è accordato che la metà delle attuali esportazioni agricole degli USA nella regione sarà libero dalle imposte nel momento stesso della firma dell'accordo. In questo gruppo ci sono la carne, il cotone, il grano, la soia, la frutta, la verdura e il mais, gli alimenti processati e i latticini. Gli Stati Uniti invece elimineranno la maggioranza delle tariffe solamente in uno spazio di 15 anni.

Questo significa che considerando i sussidi milionari che il governo degli USA assegna alla sua agricoltura, i coltivatori del Centro America potranno assai difficilmente competere e in poco tempo il mercato regionale verrà inondato dai prodotti statunitensi. Come nell'agricoltura, gli Stati Uniti hanno imposto nel TLC una lista con tessuti e servizi, con chiari benefici per la loro economia. Si tratta di un accordo che i firmatari del Centro America saranno obbligati ad adottare con un ambito legale che darà maggiori possibilità agli imprenditori nordamericani.

Tutte queste regole riducono la capacità degli Stati di applicare le politiche nazionali a convenienza propria e consegnano la podestà alle multinazionali per discutere davanti alla giustizia le decisioni degli stati stessi. Il primo passo dopo gli incontri sarà la firma dell'accordo da parte dei presidenti nel mese di aprile e questo accordo lo si dovrà presentare anche ai parlamenti nazionali.

Anche se le conversazioni si sono concluse con regole molto convenienti per Washington, i popoli insistono nelle loro rivendicazioni. Per il nicaraguense Gutiérrez nonostante gli accordi ufficiali sul TLC, i movimenti sociali continueranno a lottare per far sì che i popoli non continuino a soffrire la fame e la miseria per colpa delle politiche neo liberiste.

 

 

 

 

La fame in Sud America - Le persone sottonutrite (1998-2000)

Tutto il Sud America è colpito dalla tragedia della fame: Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Nicaragua, Perù, Uruguay e Venezuela presentano uno scenario dominato da profondi disuguaglianze. Le situazioni più critiche si registrano in Bolivia, Venezuela e Nicaragua.

"In America Latina stiamo cercando di superare il passato per costruire il presente. Non c'è altra strada. Soltanto dopo aver fatto i conti con ciò che siamo stati, potremo guardare al futuro. Tutto dipenderà da noi: quello che saremo capaci di seminare nei prossimi anni, sarà esattamente ciò che raccoglieremo". Sono molti anni che l'intellettuale argentino Adolfo Perez Esquivel s'impegna nel difficile campo della difesa dei diritti umani in Sudamerica. Un impegno tenace e quotidiano, pagato a caro prezzo con la tortura nelle carceri argentine degli anni Settanta e sottolineato nel 1980 dall'attribuzione del premio Nobel per la pace. L'immagine che scatta del proprio continente è quella di un "lugar maravilloso y al mismo tiempo afligido", un luogo bellissimo ma sofferente: "L'America Latina sta uscendo dall'epoca delle dittature militari dopo aver pagato un alto costo in vite umane. In molti Paesi sono in atto processi democratici. Ma non è solo ponendo il voto in un'urna che possiamo dirci democratici. Democrazia significa uguali diritti per tutti. E invece è sotto i nostri occhi la terribile sperequazione fra la condizione di pochi privilegiati e quella, misera, della maggior parte delle popolazioni locali".

Quali sono oggi le emergenze in Sudamerica?

"Ci sono mali che affliggono l'intero continente: l'aumento della povertà, l'esclusione sociale, la violenza per le strade e quella strutturale. Su tutto, incombe come una spada di Damocle l'enorme debito estero che grava su molti Paesi. Una cosa ingiusta e immorale, perché più paghiamo, più dobbiamo e meno ci resta. Lo ha sottolineato più volte, dall'alto della sua autorità morale e spirituale, anche lo stesso Giovanni Paolo II: i popoli di America Latina, Africa e Asia hanno già pagato molte volte l'ammontare del debito. E invece gli altissimi interessi sottraggono risorse importanti allo sviluppo. Inoltre, c'è un'altra bomba silenziosa, che non viene menzionata sui giornali ma fa più vittime di una guerra".

Quale?

"La fame, che sta facendo stragi in Sudamerica. Servono nuovi concetti di sviluppo e possibilità di vita per i contadini, da realizzare con progetti che tengano conto delle realtà locali. Ora, ad esempio, attraverso la politica degli Stati Uniti, si sta applicando il "Piano Colombia". Si tratta di ben 1300 milioni di dollari, cifra alla quale ha contribuito anche l'Unione Europea. Ebbene, io chiederei all'Ue di tirarsi indietro da questa iniziativa, che mira soprattutto a regionalizzare il conflitto colombiano nel continente. Ma non si può pensare che il narcotraffico e la guerriglia siano solo un problema militare o di polizia: il problema della droga dev'essere controllato nei Paesi dov'è il mercato, con interventi ad hoc e un'educazione e un'informazione adeguata e non solo confinandolo laddove oggi avvengono gli scontri e la guerriglia. In Colombia in questo momento ci sono quasi un milione di profughi interni. Una tragedia spaventosa, che ci riempie di angoscia e preoccupazione".

C'è qualcosa che i Paesi più sviluppati possono fare per fermare tutto questo?

"Sembra incredibile, ma in un mondo che si fa sempre più ricco e tecnologico, vanno aumentando poveri ed esclusi. Anni fa, con don Helder Camara andammo nel Nord Est del Brasile per sostenere la causa di alcune popolazioni locali che una multinazionale voleva privare del diritto alla terra. Quando fummo in tribunale, gli indios issarono un cartello con una grande scritta, perché il giudice potesse vederla da lontano. Diceva: chi ha comprato la Terra a Dio? Il Signore ha dato la terra a tutti e non a un piccolo settore della popolazione mondiale. Lo sfruttamento delle risorse deve essere fatto con intelligenza e rispetto: gli indios prima di seminare chiedono permesso alla Terra, le rendono onore perché sanno che, se utilizzata con raziocinio, essa darà loro aiuto e nutrimento. L'appello del Vaticano sulla necessità di rispettare la terra e di distribuirne meglio le risorse andrebbe ripetuto nel nostro continente ogni santo giorno, perché possa diventare pratica quotidiana dell'operato di chi ha in mano le leve del potere e la gestione degli sterminati latifondi".

Già, il potere. Molti Paesi latinoamericani stanno attraversando una fase di delicata transizione: dalle oligarchie militari del passato a regimi più liberali, ma a volte simili a "democrazie sotto tutela".

"Credo che sia un momento difficile, di transizione appunto. Soprattutto perché ci sono problemi non risolti: basta vedere ciò che accade in Cile con Pinochet, la situazione del Perù, la violenza in Colombia. Credo che, per avviarci pienamente sulla via della democrazia, dobbiamo chiudere i conti col passato. Questo può avvenire solo facendo giustizia. Non basta dire: "Bisogna dimenticare il passato". I popoli che dimenticano, commettono di nuovo gli stessi errori. Come cristiani, siamo chiamati a ricomporre il corpo sociale e le relazioni personali attraverso la riconciliazione, il perdono. Ebbene, io posso perdonare coloro che mi hanno torturato, ma non posso dimenticare. Chi ha sbagliato deve riconoscere la propria colpa e a questo deve seguire la riparazione del danno. Solo allora, arriveranno il perdono e la riconciliazione".

Una riconciliazione che potrebbe aprire la strada alla rinascita del continente?

"Ci sono molti segni di speranza. Sono come fiumi sotterranei, che all'improvviso potrebbero salire in superficie e cambiare la storia. Il movimento dei "Sem terra" brasiliani, ad esempio, o gli altri movimenti indigeni. O ancora le organizzazioni per i diritti umani e quelle per i diritti delle donne, molto importanti laddove la donna ha sempre avuto una presenza attiva nella vita sociale, culturale e politica. Ecco, in questa epoca di globalizzazione che a volte annichilisce le realtà locali, dobbiamo recuperare l'identità di essere popolo, ritrovare una spiritualità e un senso di vita comune. Paolo VI ci chiamava il "continente della speranza". Aveva ragione e continua ad averla ancora oggi, perché l'America Latina continua ad essere el continente de la esperanza".

Vincenzo R. SpagnoloÙ

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